Attraverso i modi di dire, i detti, i proverbi, le filastrocche, alcune frasi particolari, si racconta la tradizione di un popolo e il cinema l’ha raccontata e continua a raccontarla. Sono molti i modi di dire che s’incontrano parlando e molti sono quelli usati al cinema. Non sempre, sia nella vita che sul grande schermo, vengono adoperati a proposito, non sempre il lettore o lo spettatore li coglie per quello che sono. Poco male, dato che il contesto spesso è sufficiente a far capire di cosa si tratti, e la comparazione arguta, il ricordo di una situazione quasi simile in cui qualche personaggio s’è imbattuto vengono subito chiariti intuitivamente. Spesso molti modi di dire chiudono sinteticamente un significato molto preciso. Molti modi di dire che furono tali un tempo, oggi non lo sono più, così come un modo di dire in un luogo non ha lo stesso significato in un altro. Il modo di dire presenta aspetti tali da non poter essere definito con esattezza, forse perché ogni linguaggio è tutto una grande metafora, o tutto una catena di simboli che, collegando gli elementi, riesce a cogliere la sintesi d’un oscuro rapporto che intercorre tra i fenomeni. Il linguaggio popolare resta saldamente ancorato all’immagine, al dato concreto o al fatto reale; conosce, elabora ed esprime attraverso l’immagine la cui carica espressiva tende continuamente a rinnovarsi, nonostante il logorio al quale vanno soggette tutte le cose. L’aspetto più vivo di queste espressioni sta nel fatto che lasciano cogliere il linguaggio allo stato nascente, permettendo di seguire il segno che, da particolare, diviene significativo per una comunità, veicolo d’uno scambio. È un punto di vista particolarmente felice per percepire la creatività continua d’una comunità linguistica che si rivela secondo il proprio spirito, la propria tradizione e la propria storia. Ogni terra dà vita e corso alle proprie facezie proverbiali particolari, molto più particolari di altre espressioni. Nei film tornano ad apparire così come appare la cultura di un determinato luogo. Uno degli aspetti più interessanti della cultura contemporanea è il recupero del passato, in particolare di quella civiltà contadina e artigiana, di quella cultura subalterna che ha rappresentato fino a qualche decennio fa l’ossatura portante dell’economia e della vita quotidiana polesana. Ci si riferisce a quelle tradizioni e ai modi di dire popolari che stanno via via scomparendo. Anche in Polesine non sono mancati autori e registi cinematografici che hanno in parte ripreso e fermato su pellicola quella ricca messe di testimonianze sugli usi e costumi dei nostri antenati che ancora oggi ci permettono di rivedere un passato che, pur così vicino, appare già molto lontano. La ruota del tempo nella vita del contadino palesano è scandita sempre da detti, o modi di dire, legati al ciclo stagionale e al Po. In “Gente del Po” Michelangelo Antonioni, dopo aver mostrato la vita della gente che vive sul fiume (sui barconi) e attorno al fiume, mostra la sequenza con una donna vestita di nero che si avvicina all’entrata della chiesa di Crespino, mentre dall’angolo sbuca un uomo in bicicletta che va verso la m.d.p. che lo segue, scoprendo la facciata di una casa davanti la quale un vecchio, di spalle, si china a raccogliere qualcosa. Intanto, la voce fuori campo dice: “La vita scorre lenta come le stagioni, come il fiume. Questo dicono le campane”.
I modi di dire e i proverbi sono la saggezza del popolo. Fin dai tempi di Salomone e di Plutarco i proverbi rappresentavano norme di comportamento, regole giuridiche, religiose, igieniche, d’insegnamento scientifico e anche in amore. Sempre in “Gente del Po”, un giovane con la bicicletta si dirige verso la riva del Po e lo speaker annuncia che “andan a far l’amur in riva al Po” [va a far l’amore in riva al Po], com’era tradizione in quei luoghi, verso le ore del tramonto.
Nei film girati in Polesine si può osservare un fenomeno glottologico complesso, di natura eterogenea, esattamente come avviene nella realtà. Nessun rudimento di lingua straniera si rinviene nel dialetto, ma si nota la differenza, o diversità, dei dialetti col variare dei luoghi nella stessa provincia. Storicamente ciò è conseguenza delle diverse dominazioni a cui dovette spesso sottostare la provincia di Rovigo. Nella fattispecie si notano due dialetti ben distinti: il dialetto veneto e celtico, e, lungo il Po, un dialetto che risente particolarmente di quello ferrarese per un dominio durato fino al 1797, poiché nella Transpadana ferrarese era circoscritta una parte del territorio polesano del Tartaro e del Canalbianco. Lungo l’Adige si parla invece spiccatamente il dialetto veneto per il continuo contatto con Venezia, la vecchia dominatrice. Nel film “Il grido” di Michelangelo Antonioni, man mano che la storia si sposta da Occhiobello verso Porto Tolle, si può notare questa diversità di parlata, soprattutto nelle frasi dette da comparse o da personaggi minori. Con l’accento tipicamente ferrarese una fruttivendola dice ad Irma che “l’alluvione ha portato via un po’ di vecchio e ha fatto posto a un po’ di nuovo”, quindi aggiunge che “quello che si guadagna in comodità lo si perde in qualità”. Con un più marcato accento veneto, invece, un vecchio risponde a Rosina: “Quando non ce n’è più viva Gesù”. Con lo stesso accento, il padrone delle draghe dice agli operai: “Bevete che domani potrete essere morti”. Tipicamente veneto è il “Va a remengo” di Andreina ad Aldo. Anche i modi di dire rispecchiano la terra. “Tua sorella ha la luna, stamattina” – esordisce Aldo con la sorella di Irma. “Perché vuoi buttare via i soldi per niente?” – Dice quindi Irma ad Aldo che tenta di riconquistarla con un regalo. “Costa troppo vivere in città” – dice Aldo alla figlia Rosina. In un breve dialogo la madre di Aldo sciorina tre tipici modi di dire locali: “Le chiacchiere sono come la grandine, dove cade prende”; “bella donna è una cosa, donnaccia è un’altra” ed infine si augura che ci sia una maniera per “far tornare il sentimento” ad Irma.
Nel film di Antonioni, si ripete spesso il modo di dire “essere sulla bocca di tutti” e viene usato, naturalmente, come un fatto negativo, da evitare. Elvia, quando rivede Aldo dopo molto tempo, lo saluta con “chi non muore si rivede”. Andreina ad Aldo che dà segni di apatia dice: “Il lavoro non sta ad aspettare i tuoi porci comodi”. Michelangelo Antonioni mostra un cartello in una bottega che ha più o meno lo stesso significato: “In questa drogheria chi non paga torna via”.
Nei modi di dire, detti, cantilene, filastrocche, preghiere, semplici frasi ad effetto, presenti nei film ambientati in Polesine c’è il mistero di questa terra. Probabilmente si tratta anche di semplici superstizioni o suggestioni o riflessioni popolari. Il mistero ha sempre incantato e spaventato l’animo popolare. Ogni cosa nella vita sembra regolata da norme precise: la trasgressione porta sfortuna (vedi “Ossessione”). Il male porta soltanto male, così come per il protagonista del film “Il grido” di Michelangelo Antonioni, che non ha via di scampo. Il soprannaturale ha sempre incantato e spaventato l’animo popolare. È, da sempre, convinzione che per vivere senza sorprese si debbano seguire alcune norme per non incorrere nella vendetta di forze occulte che stanno al di sopra di tutti. Tutte queste credenze, nel Polesine, sono sempre state piuttosto radicate e il cinema le ha raccontate attraverso la cultura popolare, com’è riscontrabile nelle frasi che si sono estrapolate dai film. Le ragioni di questo fenomeno sono di vario tipo.
Dal punto di vista psicologico l’atteggiamento superstizioso ha sempre avuto come radice il senso di insicurezza, di timore, di incapacità ad affrontare la realtà. Questo timore e quest’incapacità venivano proiettati, generalmente, nella concezione della divinità, dando origine ad una strana forma di religiosità che corrispondeva al bisogno di sicurezza, all’esigenza inconfessata di protezione o alla necessità di neutralizzare sentimenti di angoscia e frustrazione. L’uomo cioè ha sempre preferito proteggersi dall’influenza di supposte forme occulte, di poteri sovrastanti e minacciosi, di eventi incerti, di situazioni non tollerabili e non controllabili.
Molte superstizioni sono entrate a far parte del patrimonio della saggezza popolare senza nessuna pretesa religiosa, ma semplicemente come forma di prevenzione o come innocui luoghi comuni tramandati dalla tradizione.
Durante la prima guerra mondiale, ad esempio, il fenomeno del propagarsi delle superstizioni assunse un’ampiezza davvero impressionante in tutti gli eserciti. Quando Cesare Battisti fu impiccato nel castello del Buon Consiglio, la corda servita all’impiccagione fu ridotta in minutissimi pezzi e contesa avidamente dai numerosi ufficiali dell’esercito austroungarico presenti, poiché ognuno voleva conservarne un pezzetto quale talismano contro i rischi e i pericoli della guerra. Furono proprio i prigionieri austroungarici a diffondere tra gli italiani l’uso di talismani da portare in tasca contro le malattie: i dadi da minestra o le castagne dell’ippocastano contro il raffreddore, le cipolle contro il mal di testa, l’aglio contro il colera.
Nei luoghi vicino al Po ci sono dei punti, sugli argini del fiume, particolarmente favorevoli per gustarsi lo spettacolo delle stelle cadenti nella notte di San Lorenzo. Quanti ragazzi, nei secoli, hanno espresso i loro desideri. Tra questi, sicuramente, ci sono stati anche nomi illustri del cinema italiano.
di Ferdinando De Laurentis
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